L'aggressività nell'età evolutiva
L'aggressività è un'energia, una forza vitale presente nel bambino sin dalla nascita, quindi ancor prima che possa esprimere i suoi impulsi intenzionalmente. (D.W.Winnicott)
Il termine "aggressività" si riferisce ad un concetto tanto complesso quanto fondamentale nel tentativo di descrivere il funzionamento della psiche umana.
Innanzitutto è utile partire dall'etimologia di questa parola: deriva dal latino ad = "verso, contro, allo scopo di", e gradior = "vado, procedo, avanzo"; ha quindi il significato di "andare incontro", "andare verso".
È un termine il cui impiego è generalmente abusato, in quanto la tendenza è ad utilizzarlo in un'accezione tendenzialmente negativa, confondendolo con i concetti di rabbia, violenza o addirittura di distruttività. Questa ambiguità di significato è dovuta anche al fatto che il più delle volte la persona non distingue con chiarezza le diverse sfumature vissute nell'esperienza aggressiva, ma le percepisce come un'unica manifestazione emotiva.
La prima sorgente dell'aggressività si trova nel funzionamento del corpo del neonato (e il mondo scientifico si sta sempre più interrogando circa il suo ruolo già durante lo sviluppo del feto), in particolare nella forza vitale della motilità e delle sensazioni ad essa collegate: in questo senso essa è collegata innanzitutto con il movimento, e rappresenta quindi una prima forma di attività per il piccolo, che in questo modo coinvolge l'adulto di riferimento nella necessità di contenerlo e guidarlo, primariamente dal punto di vista fisico. Ad esempio, per essere allattato il neonato ancora inesperto necessita che sia la madre a prenderlo e posizionarlo nel modo giusto, a indirizzare la sua bocca e le manine verso il seno, a tenerlo in braccio in modo che stia in una posizione per lui favorevole. O ancora, nelle prime settimane di vita i genitori sono soliti aggiungere cuscini o coperte all'interno della culla, proprio per far sperimentare al neonato dei confini corporei stabili all'interno dei quali possa sentirsi sicuro mentre muove braccia e gambe, e progressivamente imparare a direzionare i suoi movimenti sempre più intenzionali.
In questa fase molto precoce diventa cruciale la capacità della mamma – o comunque di chi si prende cura del neonato - di adattarsi completamente a lui, porgendogli solo gradualmente quella porzione limitata di contatto con la realtà che gli potrà permettere in seguito di integrare la sua motricità con le sue intenzioni: all'inizio il neonato non ha intenzione di mordere mentre succhia dal seno, ma lo fa, così come afferra con forza le dita della mamma per il semplice fatto che gli vengono presentate di fronte, ma non ha ancora intenzione di farlo. Solo attraverso ripetizioni continue, costanti e prevedibili il piccolo può integrare diversi aspetti della propria quotidianità (piange e urla quando ha fame, sta buono e calmo dopo aver mangiato), ed è solo con questo processo di alternanza che ha luogo l'integrazione: il bambino potrà integrare la fame, la voracità e la quiete basandosi sull'esperienza dei modi in cui la madre lo tiene, lo culla, lo nutre, lo guarda e si lascia toccare, odorare e guardare.
Durante il primo anno di vita l'aggressività del bambino (che si manifesta anche con pianti, urla, utilizzo di oggetti per colpire persone o piani di appoggio) è una modalità specifica di dare spazio alla tendenza esplorativa e anche di contrastare le frustrazioni; in questo secondo caso si può connotare sempre di più come rabbia, in reazione al non poter ottenere subito ciò che desidera.
La capacità di aggredire l'ambiente diventa quindi fondamentale per la costruzione dell'identità e della sicurezza interiore, in quanto il nucleo portante della nostra identità si costituisce nei primi anni di vita all'interno della relazione con l'ambiente, ed il senso profondo di sicurezza, forza e integrità si consolida nel saper chiedere e prendere ciò di cui abbiamo bisogno.Nel bambino l'aggressività è indispensabile per distaccarsi progressivamente delle figure genitoriali e per iniziare ad affrontare il mondo; il piccolo che tocca gli oggetti, li apre, li rompe, mostra un'aggressività che, lungi dall'esser patologica, esprime il bisogno e la necessità di conoscere ciò che lo circonda.
Nel corso dello sviluppo, la possibilità di avere a che fare con le proprie pulsioni aggressive permette il graduale riconoscimento dell'altro come diverso da sé, favorendo quindi l'instaurazione di un rapporto autentico innanzitutto con le figure adulte di riferimento. Progressivamente lo sviluppo infantile procede lungo la linea della conquista dell'identità e dell'affermazione di sé, che vedono il bambino mettere in pratica a diverse riprese e in vari contesti il ricorso ad atteggiamenti aggressivi, che sono gli adulti a dover interpretare e affrontare insieme a lui. Per questo è importante il come gli adulti reagiscono ai comportamenti aggressivi del bambino: non solo a livello educativo, ma soprattutto come modello psichico che il piccolo interiorizzerà e metabolizzerà con i propri seppur ancora limitati strumenti.
In questo processo di emancipazione e di integrazione di sé, il bambino a poco a poco interiorizza alcuni aspetti appartenenti alle figure adulte di riferimento e le fa proprie, cominciando a canalizzare la propria aggressività "buona" sempre più nella direzione di una maggiore autonomia e possibilità di distinguere se stesso dall'altro. È in questo contesto che, intorno ai sedici mesi, il bambino impara a dire spesso "no" per rispondere alle richieste che gli vengono poste: si tratta di un momento evolutivo cruciale, che rappresenta il primo concetto astratto da lui posseduto.
L'aggressività è pertanto un impulso da indirizzare, e in questo il bambino deve necessariamente essere aiutato sin dall'inizio da chi si prende cura di lui, che possa offrirgli dei limiti e un contenimento, così che il piccolo non viva la propria aggressività o la rabbia come qualcosa di dirompente, con il rischio di lasciarsi andare a vere e proprie esplosioni, che possono a volte spaventare sia lui, sia gli adulti attorno.
In alcune situazioni più complesse, durante momenti di crisi o di opposizione, si può innescare nel piccolo la tendenza a farsi del male (come sbattere la testa contro il muro, o sbattersi oggetti addosso, o buttarsi per terra dimenandosi): in questi casi manca un'adeguata consapevolezza e interiorizzazione nel bambino delle proprie emozioni aggressive, e del concetto di limite e di pericolo, che gli va quindi fornito concretamente dall'ambiente esterno.
L'aggressività eccessiva, intesa come reazione incontrollata ed incapacità di tollerare le minime frustrazioni, influisce negativamente sulla qualità di vita del bambino, e quindi sul suo sviluppo affettivo e sociale: il compito dell'ambiente familiare di reagire ai suoi attacchi è molto delicato. Questo perché il messaggio che dovrebbe passare al piccolo è:
"mi accorgo di quello che stai facendo, che non mi va bene, ma non è nulla di catastrofico, e io, in quanto adulto, posso sopravvivere a quello che stai facendo".
In questo modo il bambino non viene ignorato (come spesso accade), ma non gli vengono nemmeno dati segnali nella direzione di una sua totale e dilagante potenza distruttiva, di cui potrebbe anche spaventarsi).
La componente aggressiva e il modo in cui il bambino ha imparato a sentirla, modularla ed esprimerla, farà profondamente parte del suo modo di essere e di interagire con il mondo esterno.
L'aggressività in sé, non è perciò in sé un moto intrinsecamente negativo: può diventare tale nel caso in cui il soggetto non riesca più a controllarla, regolarla, adeguarla alle situazioni o a canalizzarla in attività creative.
In maniera fruttuosa e benefica, i comportamenti aggressivi possono essere rivolti verso argomenti, aspetti, interessi della vita quotidiana che vanno da un piano concreto ad uno più simbolico: si pensi ad esempio al valore dello sport, della competizione nei vari campi (nel mondo economico, del lavoro, etc.), alla voracità nel leggere una rivista o al desiderio di costruirsi una cultura.
Viceversa, in altre situazioni meno lineari e agevoli, l'aggressività può assumere le sembianze di una forma di reazione che, quando è rivolta all'interno, produce disturbi psicologici e comportamenti dalla connotazione autodistruttiva; quando è rivolta all'esterno innesca scontri e conflitti violenti.
Crescendo, i bambini circondati da un ambiente caratterizzato da sfiducia, sospetto, risposte incoerenti, o addirittura trascurante, possono mettere in atto comportamenti devianti (se rivolti verso l'esterno) o auto svalutanti (se rivolti verso di sé): in entrambi i casi la matrice rabbiosa della questione può essere vista dal punto di vista psicologico (che è diverso sicuramente da quello educativo, ma senza che i due piani si escludano a vicenda) come un segnale, a volte disperato, di una sofferenza che il bambino da solo non riesce più a gestire. I comportamenti violenti diventano allora un modo di comunicare all'esterno, di chiedere aiuto e comprensione.